Le quote di genere funzionano?
Piccoli passi in avanti e timidi risultati. In tema di parità di genere i numeri rilevati da Obiettivo Lavoro di LinkedIn Notizie lo confermano ancora una volta.
A bene vedere, i risultati sottolineano che le quote funzionano.
Imposizioni simili non devono affatto, come ho sempre pensato, essere un fine. Ma oggi, a 12 anni dall’introduzione della legge italiana Golfo-Mosca dopo la direttiva approvata in Europa sul bilanciamento di genere nei cda e vedendo il crescente numero di aziende che, seppure non interessate direttamente dagli obblighi, ne seguono le indicazioni, è chiaro: questa è una strada efficace per impostare il cambiamento.
Un esempio significativo arriva dal Regno Unito, Paese storicamente avverso a imposizioni dall’alto come questa. Da quando nel 2022 il Financial Conduct Authority (FCA) regolatore finanziario inglese, ha chiesto alle aziende di aumentare le nomine nei boards di donne e persone appartenenti a minoranze, tantissime imprese si sono adeguate – nonostante l’iniziativa sia volontaria. 350 tra le più grandi hanno già raggiunto il target proposto del 33%.
Purtroppo, seppure i numeri si stanno consolidando ai vertice e crescono le iniziative verso una migliore parità, l’effetto a cascata sulla partecipazione femminile al mercato del lavoro e l’attuarsi di migliori opportunità per le donne – come noi per prime ci immaginavamo nel 2011 – non si è ancora verificato.
Oggi, l’esempio più innovativo resta quello dalla legge francese Rixain. Norma dalla prospettiva molto ampia, estende l’obbligo di quote nei cda a tutte le imprese con più di 1000 dipendenti (quotate e non). Interviene a favore di un miglior bilanciamento dei ruoli esecutivi e di leadership promuove azioni di supporto per le (giovani) professioniste già a partire dal loro ingresso nel mondo del lavoro e si occupa di supportare l’accesso al credito specificamente per le imprenditrici.
L’introduzione di regole chiare aiuta, ma le leggi non bastano a cambiare la cultura. Serve infatti un salto in avanti a livello sociale. Bisogna puntare a una migliore divisione dei ruoli e una partecipazione davvero paritaria, tra uomini e donne, nella gestione della cura. In questo senso, l’Italia continua a confermarsi il Paese peggiore, con una sproporzione di genere altissima.
Davanti al persistere (e in certi casi all’aggravarsi) di questa situazione, non si può pensare di contrastare la bassa partecipazione femminile al mercato del lavoro senza impostare, prima di tutto, congedi di paternità davvero equi – sui modelli di Svezia e Portogallo, dove l’imposizione ha portato a un cambio molto evidente. Senza progettare strutture di cura adeguate, o introdurre incentivi per la condivisione effettiva della genitorialità o delle incombenze della gestione familiare.
In Italia, ancora i ruoli restano fortemente stereotipati e chiaramente divisi per genere.