Il futuro dei giovani: tra gender gap e povertà educativa

Intrappolati nell’immobilità sociale italiana e pieni di rabbia, ansia, noia e confusione i giovani nel nostro Paese, soprattutto nelle periferie, faticano persino a immaginare un futuro diverso. Non vedono prospettive o una storia diversa dalle condizioni in cui crescono. È un quadro questo tratteggiato dal report pubblicato qualche tempo fa, che ha chiesto ai ragazzi “Come stai?”.  

Ho trovato interessante leggere come, secondo lo studio, se la soddisfazione proviene soprattutto dai rapporti con la famiglia (“molta” per il 55,56%) e dal rapporto con gli amici (26,26%), al contrario è verso la scuola che sono indirizzati i sentimenti più negativi. Non sono per nulla soddisfatti oltre il 55% dei 11-13enni e oltre il 20% dei 14-16enni.

Le periferie sono luoghi di abbandono. Di disperazione. Ed è proprio lì che il Paese perde potenziale, è lì dove si disperde energia creativa, la spinta dell’innovazione. Ed è lì dove si annidano invece alcune possibili risposte per le aziende italiane che oggi stanno soffrendo pesantemente non solo la carenza di profili adatti per le posizioni aperte, ma un importante mismatch tra competenze effettive e skill lavorative.

Nonostante l’Italia continui a detenere il primato negativo del numero di Neet in Europa, non guarda con attenzione quelle aree dove il sistema fa evidentemente più “acqua”. Commentava la CEO di WeWorld Dina Taddia “Nelle periferie sociali e geografiche italiane il diritto al futuro dipenderà da quanto garantiremo il diritto all’educazione, scolastica ed extra scolastica, grazie all’azione congiunta di tutti gli attori della comunità educante. Maggiore sarà l’attenzione che daremo ai giovani, partendo dalle periferie, migliore sarà il futuro che offriremo alla nostra società”.

La buona notizia è che intervenire si può, con la volontà di farlo. I risultati possono essere sorprendenti e passano dall’educazione (come sottolineato appena qualche giorno fa in questo articolo). Lo abbiamo visto con Il Cielo Itinerante e le esperienze che da anni ormai facciamo nei luoghi della povertà educativa. Le indagini condotte sul campo ce lo dimostrano: a seguito delle nostre iniziative estive, per esempio, l’interesse per la matematica (focus dei campi stem organizzati nelle periferie di Milano Roma e Napoli) cresce evidentemente, migliorano i risultati e i partecipanti si dicono più aperti a imparare ancora. Il nostro non è che un passo. Ma guardando ai dati e ai modelli positivi, con aggiustamenti adatti e investimenti adeguati, le cose possono cambiare. Tutte le novità sui programmi estivi della nostra associazione e le tappe in giro per l’Italia a questo link. 

Perché abbattere il divario di genere nelle materie ICT?

Il problema della povertà educativa, della carenza di opportunità, è chiaramente acuito dal persistere di un divario di genere diffuso. Talmente profondo che interessa già l’immaginario delle bambine. Lo chiamano “dream gap”, ovvero l’incapacità di immaginarsi in certe “vesti” professionali. Il divario parte già dai banchi delle scuole primarie. Risulta oggi più ampio negli ambiti dell’ICT (information and communication technology).

Nonostante i grandi passi avanti fatti in molti altri settori, infatti, il progresso non sembra aver interessato in modo significativo questo comparto. E al momento, senza correttivi, non si prospettano grandi cambiamenti ancora per molto tempo. Lo si può vedere nelle scelte di studio delle ragazze, nella differenza di genere nell’esposizione ai devices, negli stereotipi che categorizzano per ambiti le potenzialità di apprendimento. Sul mondo del lavoro questo significa che, oggi, le professioniste del mondo ICT, restano il 16% del totale e le laureate il 16,8%. Questo nonostante le italiane tra i 16 e i 24 anni con competenze digitali almeno di base sono il 61% contro il 57,3% dei maschi! 

Certo l’Italia non è la sola a vivere una situazione simile, resta però molto indietro rispetto alle principali economie continentali con le quali condivide (e in alcuni casi supera) i volumi di investimento, il livello di innovazione, produzione ed export. Se nell’UE gli specialisti ICT sono il 4,6% degli occupati, in Italia sono solo il 3,9%. Secondi i dati Openpolis, peggio vanno solo la Bulgaria (3,8%), la Croazia (3,7%), la Polonia (3,6%), la Romania (2,8%) e la Grecia (2,5%).

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